Padre Antonio Canduglia
Il 25 Settembre 2007, nella chiesa di San Lorenzo Fuori le Mura, Aversa e la sua Chiesa hanno ricordato uno dei suoi figli più illustri e poco conosciuto, Padre Antonio Canduglia, un missionario vincenziano martire in Cina durante quel bagno di sangue passato sotto il nome “rivolta dei boxers“, una vera caccia ai cristiani in particolare e agli occidentali in generale. Un famoso film ha parlato di questa rivolta, “55 giorni a Pechino“. Quel film finisce bene, arrivano “i nostri” (ci sono anche i bersaglieri) a salvarli, ma a Padre Antonio e a tantissimi come lui non finì bene, i nostri non arrivarono…
Confesso che di Padre Canduglia non sapevo proprio nulla, è grazie al dott. Luigi Marino che ho conosciuto la sua storia, il suo amore per il prossimo conclusosi con il martirio. Il ruolo dei sacerdoti nel mondo è stato estremamente meraviglioso nell’assicurare che le persone li abbiano seguiti per comprendere meglio la religione. È davvero qualcosa che può aiutare le persone ad abbracciare la religione con le loro credenze aiutandole ad essere in una posizione migliore per condurre una vita migliore che è chiara quando visitiamo il sito web.
Meglio di me a ricordarvelo, ecco un esaustivo testo che l’amico Luigi mi ha segnalato, tra i tanti, e che riporto integralmente. Il 25 Settembre sono stati celebrati i 100 anni dalla sua morte, ed è stato giusto ricordarlo degnamente con simposi e celebrazioni, e sono stato arcicontento che www.aversalenostreradici.com sia stato ancora una volta il primo a parlarne in ambito cittadino. E ancora primi in assoluto sappiamo che a Maggio 2009 i Padri Vincenziani nella persona del Postulatore delle cause dei Santi, P.Giuseppe Guerra, hanno incontrato il Vescovo di Aversa, tramite Mons. Giallaurito che ha assistito all’incontro: i Padri Vincenziani hanno chiesto di potersi muovere per la causa di Beatificazione del martire Canduglia.
Il Vescovo ha subito acconsentito formando una apposita Commissione composta dallo stesso Mons. Giallaurito, da don Ernesto Rascato e da Don Gerardo Sangiovanni che si dovranno occupare della cosa a livello diocesano.
Salvatore di Grazia
Al centro della pianura
campana sorge Aversa. In una di quelle strade che si addossavano alla
Cattedrale, il 13 giugno 1861 nacque Antonio
Liberatore Canduglia, da Michele, impiegato
nelle prigioni, e da Giuseppa De Chiara. Il giorno dopo
gli fu amministrato il Battesimo nella parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo.
Antonio, secondogenito di tre figli (lo precedeva, in età, la sorella
Marianna, che lo seguirà a Parigi nella stessa Congregazione di
S. Vincenzo de’ Paoli), conobbe ben presto la sofferenza, il sacrificio
e il lutto. Provò subito la tristezza per il distacco del fratellino
minore, che il Signore chiamò a sé all’età
di tre anni. Ancora piccolissimo stupiva tutti recitando il rosario in
parrocchia. «Era docile per natura», scriveva di lui Suor
Canduglia, «non ricordo d’avergli visto fare mai quelle bizze
che sogliono fare i bambini quando sono contraddetti nella loro volontà;
facilmente, si persuadeva e si contentava di tutto». Rimasto presto
orfano dei genitori, i nonni materni pensarono alla sua educazione e gli
fecero frequentare un istituto privato, forse nella stessa città
di Aversa, dove fece le classi elementari e ginnasiali.
TRA
PARROCCHIA E SEMINARIO: Conseguita la licenza ginnasiale,
ottenne dai nonni materni quello che da tempo desiderava: indossare l’abito
talare. All’età di 18 anni Antonio non aveva alcuna idea
del mondo, ma aveva in animo di farsi missionario. Suor Canduglia, la
sorella: «Credo che da qualche tempo vagheggiasse il desiderio di
farsi missionario e non osasse farmene parola, temendo di contristarmi,
perché un giorno, avendo fra le mani un’immaginetta della
Santa Infanzia, ov’era rappresentato un missionario che battezzava
un bambino tra le braccia di una figlia della Carità, egli, con
un sorriso significativo, mi disse: “Così saremo un giorno
tu ed io!”». Questo desiderio crebbe con la frequenza al Seminario
di Aversa, dove ebbe modo di conoscere – attraverso immaginette
e stampati – l’Opera della Propagazione della Fede,
realizzata a Lione, da Paolina Maria Jaricot. Il futuro beato P. Paolo
Manna, al suo arrivo in diocesi, il 23 agosto 1921, poté vedere
già cinque suoi figli martiri per la fede e così scrisse
sul bollettino annuale delle Pie Opere “La Santa Infanzia e la Propagazione
della Fede”: «Se tutte le diocesi fossero state così
ordinate, non sarebbe sorta l’Unione Missionaria del Clero».
Lì ad Aversa, infatti, lo spirito missionario aveva radici che
risalivano al 1822, anno dell’Istituzione dell’Opera per la
Propagazione della Fede.
SULL’ALTARE DUE MARTIRI… Antonio
aveva coltivato a lungo il sogno di partire missionario, tanto più
che da Parigi arrivavano voci sulla necessità di preti in Estremo
Oriente. Nel 1880, all’età di 19 anni, lasciò
Aversa per trasferirsi nella Casa madre dei Padri Lazzaristi di Parigi.
Il Signore lo invitava a camminare con lui «senza guardare indietro».
Capì subito la frase evangelica: «Chi ama il padre e la madre
più di me non è degno di me». Chi, in quel tempo,
avesse avuto desiderio di abbracciare la vita missionaria, purtroppo,
doveva trasferirsi al Nord, o, addirittura, all’estero. Sarà
il Padre Manna a ravvisare la necessità di istituire un luogo di
formazione missionaria nel meridione d’Italia negli anni ’20,
con la disponibilità della stessa diocesi di Aversa, che depose
nelle sue mani il palazzo padronale in Trentola Ducenta, tuttora centro
di formazione e animazione missionaria per tutto il Sud d’Italia.
Al termine del noviziato, con la professione religiosa del 3 maggio
1882, entrava definitivamente nella Congregazione di
S. Vincenzo de’ Paoli e già il successivo 3
giugno riceveva la sacra tonsura e gli Ordini Minori. Il 7
giugno 1884 fu ordinato, a Parigi, sacerdote missionario
della Congregazione dei Padri Lazzaristi.
CINESE TRA I CINESI: Il 5 luglio
lasciava Parigi per l’Estremo Oriente. Lo attendeva la Cina, la
terra dei suoi sogni. Quando Padre Antonio arrivò a destinazione,
fu subito associato al lavoro degli altri Padri Lazzaristi nel Kiang-si
meridionale. Furono essi i primi maestri di pastorale missionaria. Ma
bisognava apprendere la lingua e i non pochi e difficili dialetti cinesi,
in particolare il mandarino. Più di due terzi della popolazione
lo parlava. Bisognava inoltre conoscere i quattro toni del cinese, corrispondente
agli effetti della voce: scendenti, discendenti piatti o modulati. I caratteri
della lingua cinese erano moltissimi e avevano pronunce a volte simili,
ma con significati diversi secondo la tonalità; che se la pronuncia
non era esatta poteva succedere che si chiedesse da bere e gli venisse
portata, ad esempio, una manciata… di fieno.
Da qui in poi per i cinesi egli sarà I-Kiang.
Antonio capì che non sarebbe giunto lontano, se non si fosse totalmente
inserito nella vita cinese. Conosceva bene l’istruzione del 1659,
la Magna Charta di Propaganda Fide, diretta ai Vicari apostolici in Cina
e in Indocina, contenente direttive per i missionari. Di esse, alcune
erano degne di una particolare attenzione: l’invito a promuovere
il clero locale e l’impegno per l’inculturazione, con la proibizione
di combattere i costumi e
le tradizioni del Paese, eccetto quelli in contrasto con la fede e la
morale. Insomma era necessario farsi “tutto a tutti”. Aveva
cambiato i vestiti, lo stesso nome, s’era vestito alla cinese e
ora bisognava cambiare anche i costumi. «Vuoi farti un’idea
dei costumi di questa gente? Fanno tutto il contrario degli europei: mangiano
al mattino e fanno colazione la sera; se fanno il calcolo con le dita,
incominciano dal dito mignolo e finiscono col pollice; gli uomini portano
una lunga veste e le donne vanno con i calzoni ed una blusa che arriva
al ginocchio; in Europa si scoprono la testa in segno di rispetto, qui
si coprono: è una grande ineducazione il presentarsi a un personaggio
con la testa scoperta; sicché anche noi celebriamo la Messa con
la testa coperta, con un berretto di seta tutto lavorato, con due larghe
sciarpe che scendono di dietro e con una piccola mitra».
E poi che letti, che viaggi, che sporcizia…, che cibi!
«I cinesi sanno ben salare, salano tutto, salano la carne porcina,
quella di bue o di cane, salano i pesci, salano le uova, gli erbaggi,
le frutta, le carote, le melanzane, le anitre, gli uccelli, salano…
le zucche (non vale più il detto «non c’è sale
in zucca!»)… il riso è il loro cibo quotidiano: riso
al mattino, riso a mezzogiorno e riso alla sera». Giorno dopo giorno
Padre Antonio diventava cinese tra i cinesi.
UN INCENSIERE… “MARTIRE” NEL KIANG-SI MERIDIONALE:
Terminato lo studio della lingua, al giovane missionario fu assegnato
il distretto che abbracciava tutto il dipartimento di Nanhag-Fou e che
comprendeva le città di Tayu-Hien, Nan-Ngan-Hien, San-Yu-Hien,
Tsuen-Yu-Hien. Attorno a queste città, migliaia di villaggi, tra
i quali, quello di Ta-wo-li (dove Padre Antonio risiederà e incontrerà
il martirio), l’uno vicino all’altro, con 6/700 abitanti.
La sua dimora: una misera capanna che era chiesa, sacrestia, studio, camera
da letto: «Non c’è neppure una cucinetta; se non fosse
per la Salome, vecchia mia vicina, la quale mi prepara il pranzo in casa
sua… Per volersi edificare una casa bisognerà avere pazienza
e aspettare il tempo designato dalla divina Provvidenza». «Io
faccio una vita errante; non mi ritrovo mai nel medesimo luogo…
simile ad uno zingaro… vado girovagando per ogni dove. Sono venuto
in queste contrade lontane per additare agli altri il cammino della vita
eterna… bramerei spendere un quarto d’ora innanzi al SS. Sacramento…
sono solo e in tutto il mio distretto non vi sono altri missionari. Ho
uno svegliarino che mi fa alzare alle quattro; ecco la sola pratica che
mi resta, vera reliquia di comunità: se si guasta, addio regola
di San Vincenzo».
In genere, impiegava cinque o sei mesi a percorrere o visitare le comunità
cristiane. Se il luogo si trovava sul fiume, prendeva la barca; diversamente
non gli restava che andare a piedi o servirsi di un palanchino (in una
delle corrispondenze confidava: «È meglio andare a piedi
che rompersi le ossa in simile veicolo»). «Ho, poi, un bel
mulo che mi porta sulla sua schiena quando vado a Nan-Ngan-Fou o altrove;
se vedessi, che animale intelligente! Gli manca solamente la parola e
come conosce il padrone! In viaggio, valica monti e attraversa fiumi e,
nei luoghi scabrosi, cammina con attenzione per non farmi cadere. Ma se
è un altro che gli s’avvicina? Si volta subito dalla parte
della groppa e l’invita a guardare i suoi piedi». Nelle sue
peregrinazioni apostoliche, tra le cose necessarie era solito portare
con sé un incensiere, «perché i cristiani amano vedere
bruciare dell’incenso». Un incensiere “martire”
con una storia degna di essere raccontata.
«A quanti e quali missionari, scriveva, sia appartenuto, non lo
so. Ultimamente era nelle mani di Padre Angelo Fusco, italiano, aversano,
il quale ha fatto i suoi studi nel Seminario di Aversa; lo conobbi a Parigi
durante il mio Seminario e un anno durante gli studi. Quando io ricevevo
gli Ordini Minori, il 3 giugno 1882, egli prendeva Messa e partiva per
il Kiang-si meridionale». I due futuri martiri si rincontrarono
quell’8 settembre 1884 a Shangai: l’uno arrivava e l’altro
ripartiva per l’Europa per cattiva salute. «Ritrovai tutti
gli arredi sacri dei quali egli si serviva e li ottenni per il mio uso,
fra gli altri oggetti c’era pure quell’incensiere. Era un
vero ricordo: ricordo di un paesano, ricordo di un confratello che avevo
conosciuto a Parigi, ricordo di un missionario che avevo conosciuto in
Cina e, guarda caso, proprio nel Kiang-si meridionale». Un incensiere
destinato a segnare un passaggio di consegne nel vincolo della stessa
fede. Quell’incensiere fu anch’esso vittima di un saccheggio
voluto, nel 1886, da un mandarino nemico giurato dei cristiani. Ma un
giorno Padre Canduglia venne a sapere che quell’incensiere si trovava
al Monte di pietà e riuscì a riscattarlo.
Certo è che la sua fu una vita continuamente a rischio. Erano tempi
in cui la guerra in Cina era di casa. Per di più, prendeva sempre
più corpo il brigantaggio. Mentre a Nord i Boxer dominavano incontrastati,
al Sud squadroni di briganti e per giunta fanatici, con un misto di magia
e spiritismo. Spesso riaffioravano gruppi nazionalistici con forti sentimenti
xenofobi. Padre Antonio si era messo nelle mani del Signore.
UNA PERSECUZIONE TERRIBILE: Agli inizi del 1900
era scoppiata la rivoluzione dei Boxer, sorta in reazione all’occupazione
di alcuni porti cinesi da parte di nazioni europee e alla creazione di
zone di influenza straniera all’interno del Paese. Nel movimento
xenofobo furono coinvolti anche i missionari perché il protettorato
francese li faceva apparire più cittadini di un potere straniero
che non inviati di una religione. Da questo malcontento, nacque lo slogan
della “società dei Pugni Armoniosi” (Boxer): «Sterminate
gli stranieri». Ed inoltre: «Popoli, alzatevi: abbiate un
cuore solo e un’anima sola per uccidere i diavoli d’Occidente.
Dai tempi antichi, i Cinesi dell’Impero del Mezzo si distinguevano
dai barbari stranieri: ora i popoli sono confusi. A chi appartiene l’Impero?
Confucio e Mengtsen non fanno che piangere e i loro petti sono inondati
di lacrime». Questo movimento era chiaramente diretto contro i cristiani
e gli europei. Più d’una volta, i cristiani indigeni sentirono
questa minaccia: «Vi uccideremo e non vi permetteremo di ritornare».
La rivoluzione incominciò a Nord della Cina non risparmiando né
uomini né cose. Padre Antonio, scrivendo alla Superiora delle Figlie
della Carità con animo triste e amareggiato, diceva: «Una
persecuzione terribile è venuta a sorprenderci nel momento che
non ce lo aspettavamo, la quale ha raso tutto al suolo, tutto ha distrutto
ovunque è passata». In tutte le province del Kiang-si, chiese,
cappelle, residenze, tutto fu saccheggiato ed incendiato. I villaggi cristiani
ebbero la stessa sorte: spogliati, depredati, bruciati e abbandonati privi
di tutto. Nella Missione del Padre Canduglia, la situazione fu ancora
peggiore: gli incendiari intendevano massacrare tutti i cristiani. Molti
riuscirono a fuggire, ma «quelli che non hanno voluto o potuto fuggire
sono stati assassinati senza pietà». Non rispettavano né
vecchi, né donne, né fanciulli. Tra le prime vittime vi
furono tre giovani vergini cristiane, piissime, tutte sorelle di un prete
cinese. Un giorno presero più di venti cristiani e due suore, li
gettarono in terra e, dopo averli coperti di paglia e di sarmenti, vi
appiccarono il fuoco, facendoli morire tra sofferenze atroci.
L’ORA DEL TRAMONTO: Dopo le sanguinose
scorribande nella Cina del Nord, nei primissimi anni del 1900, i Boxer,
inarrestabili nella loro furia sanguinaria, dirottarono verso il Sud,
dove trovarono terreno fertile. Padre Canduglia, all’avvicinarsi
della furia xenofoba e antireligiosa, sapeva bene che ogni buon pastore
non fugge se vede venire il lupo. La nuova setta, chiamata “Chen-Ta-Hoei”,
ossia “Società degli Spiriti Battitori”, o “Della
lotta per gli Spiriti” si poneva anch’essa in opposizione
agli europei e ai cristiani.
Non si facevano scrupolo di calunnie e menzogne. Persino il Prefetto di
Kanchow fece affiggere un proclama che dimostrava quanto fossero ridicole
le accuse. I Padri missionari incaricarono Padre King (un prete indigeno)
perché sollecitasse il Taotai (il Prefetto) a prendere provvedimenti
che, in parte, rasserenarono i cristiani. Non così a Ta-wo-li,
centro di Padre Antonio. Il Sottoprefetto fu poco sollecito a porre freno
alla setta che ebbe via libera e, cosa ancor più vergognosa, tutti
i fabbri dei dintorni furono requisiti per fabbricare armi.
Il 21 settembre 1907 quattrocento Boxer si portarono
a Ta-wo-li per mettere a soqquadro l’intero villaggio. Trepidazione,
paura, angoscia invasero ogni casa. Padre Canduglia inviò a Kanchow
due corrieri a chiedere soccorsi, mentre il Padre Lecaille dava rifugio
a tutti nella chiesa. Il Padre Scottey espose la situazione al Prefetto
che inviò sessanta soldati, di cui, però, venti mandati
al villaggio ad Ovest di Kanchow. Il 22 settembre 1907 e il giorno successivo,
si ebbe l’impressione che l’allarme fosse rientrato. Ma era
un tranello ben architettato. Il Prefetto stava vendendo la vita dei missionari.
Nel pomeriggio del 24 settembre, Ta-wo-li era completamente circondata
da centinaia di Boxer. Ormai non c’era scampo. Verso le
ore 17 veniva ucciso un primo cristiano.
«SINITE HOS ABIRE!»: Inutilmente
Padre Antonio si era rivolto al mandarino; in risposta gli fu proposto
di abbandonare tutto e tutti e fuggire. La sua preoccupazione non era
il salvarsi, ma il salvare.
Si ripeteva la scena di Gesù nell’orto degli ulivi:
«Sinite hos abire!». Andava ripetendo spesso: «La
mia vita non importa; prima di tutto proteggete i miei cristiani. Avete
dimenticato che un pastore dovrebbe dare la vita per le sue pecore? Noi
non siamo degni del martirio; ma ecco quale grazia Dio può farci
nel compiere il suo dovere in ogni cosa».
Nella notte del 25 settembre i Boxer erano diventati
circa diecimila e incominciarono ad appiccare fuoco dappertutto. I cristiani
furono invitati tutti a rinchiudersi nella chiesa per mettersi al sicuro.
Durante l’assedio perirono molti cristiani.
«Quel mattino – così scrive al Padre Superiore Generale
– fu bruciato vivo un medico cristiano, Simone Tcheng, di 83 anni;
non miglior sorte ebbe Alessandro Tcheng, padre di una suora di S. Anna,
che fu arrestato e interrogato sulla sua religione. Avendo coraggiosamente
confessato la propria fede, fu subito legato, trascinato e decapitato,
mentre invocava il nome di Gesù, di Maria e di Giuseppe. Sulla
pubblica piazza, un gruppo di sette-otto fanciulli venivano infilzati
e sollevati in aria con lunghe pertiche e poi rigettati a terra per essere
infilzati di nuovo. Una dozzina di giovani cristiane, poi, prima di essere
uccise ebbero troncati il naso, le orecchie e il seno. Una di esse, come
l’apostolo S. Andrea, fu messa in croce con le braccia e le gambe
divaricate e il corpo trapassato con un coltello di bambù e, per
ben due giorni, sopportò quell’atroce supplizio. Era soltanto
l’inizio; l’epilogo sarebbe accaduto nel pomeriggio, quando
i nuovi Boxer strariparono a migliaia.
Erano giunti, frattanto, alla residenza del missionario, mandati dal mandarino,
un ufficiale con dieci uomini e quattro cavalli, con l’ordine di
prelevare con la forza il Padre Canduglia e «portarlo in salvo».
MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1907: A chi lo
invitava a salvare la propria vita, rispondeva: «Avete dimenticato
che un pastore dovrebbe dare la vita per le sue pecore?». All’ultimo
appello di Padre Antonio il mandarino gli consigliò di abbandonare
tutto e tutti e salvare la vita. Puntualmente la risposta fu: «La
mia vita poco importa, prima di tutto proteggete i miei cristiani».
Allora, fattolo salire su un cavallo, lo prelevarono con forza con l’intento
apparente di portarlo in salvo con i suoi cristiani. Uscito dal villaggio
lo attendeva un feroce gruppo di rivoluzionari. Il primo bersaglio fu
il cavallo del padre. Appena la bestia stramazzò al suolo, ben
due colpi di picca ferirono il missionario. Il cadavere fu allora decapitato
e aperto. Il cuore e le viscere strappate e il corpo crivellato con arma
tagliente; nella serata, poi, il cuore fu divorato da quei banditi, mentre
le viscere furono sospese agli alberi per essere mangiate dagli uccelli.
Nei giorni seguenti la testa fu portata in giro sopra una picca per i
vicini villaggi e poi gettata in uno stagno. Sta di fatto che, uccidendo
lui, furono salvi quasi tutti i suoi cristiani, rinchiusi nella sua chiesa
e lo stesso Padre Lecaille, che con lui aveva condiviso gli ultimi tempi
nel lavoro apostolico. Consegnandosi come agnello condotto al macello,
aveva già ottenuto salva la vita per i suoi cristiani e per lo
stesso Padre Lecaille, mentre ora per sé aveva ripetuto definitivamente:
«La mia vita non importa!».
Ai Cinesi aveva voluto non soltanto dare il Vangelo di Dio, ma tutto se
stesso. Aversa gli ha dedicato una strada, in uno dei vecchi quartieri
della città: “Via Antonio Canduglia, martire
missionario”.
DALLE LETTERE DI Padre ANTONIO ALLA SORELLA «COM’È
DIFFICILE DIVENTARE CINESE»
«Da che sono arrivato in questo Paese, non ho fatto altro che studiare
la lingua cinese. La lingua non si apprende facilmente; è da sette
mesi che lavoro ed appena ne so qualche parola. Per parlare questa benedetta
lingua dei codini ci vogliono più anni; per saper leggere e scrivere
ci vuole una decina di anni… ogni parola ha un segno nella scrittura;
sicché quante sono le parole, altrettanti sono i segni che differiscono
l’uno dall’altro; se ne contano da tredici a quattordicimila».
«Se vedessi come sono vestito, ti metteresti a ridere! Una lunga
veste che scende sino ai calcagni, aperta ai due lati come
una camicia; cambia di colore secondo le stagioni: bianca nell’estate,
blu nei mezzi tempi, nell’inverno foderata di pelle: una lunga casacca
con larghe maniche, che chiudesi mediante 5 bottoni di ottone (5, sai,
e non più, che l’abito sia piccolo o grande non ne abbia
più di 5: metterne uno di più sarebbe violare le regole),
un paio di scarpine di stoffa e delle calze bianche cucite con l’ago».
«Ogni otto giorni viene il Ti-Ten (barbiere), per radermi la testa,
me la mette in un bacile di acqua calda e me la stropiccia ben bene, poi
si arma di un rasoio, che taglia come il vento, me la fa pulita pulita,
eccetto al cocuzzolo; dopo mi pettina ed intreccia il codino e vi mette
dei laccetti di seta che scendono quasi fino ai piedi. Se sapessi che
mi fa passare questo benedetto codino! Afferra dappertutto; un giorno
sentii strapparmelo fortemente di dietro. Che cosa era successo? Uscendo
di fretta si era chiuso nella porta».
A destra la copertina del libro che Mons. Nicola Giallaurito ha pubblicato sulla vita ed il mrtirio di Padre Antonio Canduglia